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Le tre eredita' di Benedetto XVI

Data: 01/03/2013
Categoria: Altre News

Il commento del  presidente del Centro servizi volontariato Salento, Luigi Russo, sulla scelta di Ratzinger a lasciare il Pontificato

A partire dalle ore 20 del 28 febbraio la sede papale è “vacante”. A Castel Gandolfo, invece, il “papa emerito” ha iniziato la sua nuova vita, “nascosto al mondo”, ma “senza abbandonare la Chiesa”. Il suo gesto è “storico”, lascerà senza dubbio il segno, nessuno potrà più nella Chiesa pensare in futuro come si è pensato in passato: nessuno potrà più dire che “le cose vanno sempre così”, che “alla fine ci sono equilibri che si devono mantenere e gruppi di forza che scelgono la guida della Chiesa”.

La prima cosa che Benedetto XVI lascia come eredità è proprio questa: prevale Dio sulla volontà umana; tutto il suo Pontificato, con le encicliche e i discorsi e le relazioni e le omelie, afferma semplicemente e costantemente il primato di Dio sulle ideologie, sulle teorie, sulle logiche umane - seppure senza disdegnare il servizio della ragione e il valore dell’azione -; egli porta questa coerenza fino alle estreme conseguenze, come quella della rinuncia, per un bene più grande, che non è detto che coincida con l’attuazione delle proprie tesi e delle proprie intuizioni.

La seconda cosa che Benedetto XVI lascia come eredità all’intera Chiesa e all’umanità è la riaffermazione del senso del Mistero: la storia della Salvezza non procede secondo calcoli umani o scelte strategiche seppure “pastorali” (progettazioni, realizzazioni, verifiche); c’è un filo rosso che conduce il cammino della Chiesa nell’economia nascosta della Grazia, e quanto più scompare il calcolo umano tanto più diventa trasparente la volontà di Dio che è il Bene. Così, quello che la ragione non può spiegare, viene invece compreso con la fede. Insomma il “papa emerito” ha affermato nel suo Pontificato il primato della fede, non solo nella vita personale, ma anche nella lettura della storia: una riabilitazione - dopo anni di attivismo a volte esasperato quanto a volte inefficace - della straordinaria forza del Mistero, della realtà mistica della Comunione dei Santi, che “era”, “è”, “sarà” (termini incomprensibili e/o inaccettabili dalla cultura dell’ Eterno presente); insomma, una restituzione della centralità della Vita Teologale (Fede, Speranza, Carità; memoria, realtà presente, progetto futuro) che finisce di essere oggetto di studio e viene a innervare la Chiesa, completamente di Dio e completamente dedicata all’umanità.C’è, infine, una dimensione più sociologica e psicologica del gesto di Benedetto XVI che lo rende “rivoluzionario”: un papa quasi ottantaseienne, fine filosofo e teologo, decide di immettere in uno spazio fisico, come quello del potere ecclesiastico - che ha una inerzia bimillenaria - una dimensione di profonda destrutturazione, come la rinuncia, che è poi esplicita manifestazione e riconoscimento della debolezza. Egli dice: quest’Opera – la Chiesa – non è di mia proprietà, io sono solo “un servo della vigna”; è Dio il vero Padre/Madre e ci affida qualche talento che possiamo e dobbiamo mettere a frutto; io posso portare solo un piccolo contributo alla Salvezza di tutti i fratelli (vicini e lontani…), ma non sono il Salvatore; l’essere Pontefice è sostanzialmente un impegno a fare da ponte tra l’umanità e Dio; ma io non sono indispensabile, altri devono poter portare il loro contributo, c’è bisogno di ognuno, c’è bisogno dei potenti come degli umili, dei primi come degli ultimi. Questo pensiero del papa ci ricorda che occorre avere un profondo senso del limite, e che forse il modo migliore per combattere gli effetti distruttivi del potere - e ci sono in ogni istituzione – non è quello di confliggere frontalmente con il male, provocando inevitabilmente così un suo rinforzo e una sua amplificazione, ma di inviluppare i suoi effetti nel grande utero dell’umiltà. E’ l’umiltà, infatti, l’energia più rivoluzionaria della storia, perché è generativa, costruisce ponti, sviluppa nelle relazioni il desiderio di confronto, di ascolto, esplicita il bisogno che ognuno di noi ha dell’altro e l’altro di noi.

Questa grande lezione di Benedetto XVI vale sia per la Chiesa, sia per ogni uomo e donna di buona volontà: non c’è altro modo, probabilmente, di costruire vincoli solidali e responsabili, se non attraverso – innanzitutto - l’ammissione che siamo limitati; che abbiamo bisogno l’uno dell’altro; che la solidarietà e il dialogo non sono alimento del nostro narcisismo e del nostro perbenismo, ma strumenti per costruire comunità responsabili e piene di speranza nella verità: un altro modo per dire “incarnazione di Dio”.



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