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L'Europa condanna l'Italia sul diritto al lavoro dei disabili

Data: 05/07/2013
Categoria: Altre News

Secondo la sentenza della Corte di giustizia europea del 4 luglio 2013, nel nostro Paese non esiste ancora parità di trattamento in materia di occupazione. Per la Fish, le norme italiane sono a maglie troppo larghe

Arriva un'altra condanna per l'Italia in termini di diritti. La Corte di giustizia europea ha stabilito che il Bel paese non rispetta a direttiva europea del 2000 in materia di diritto al lavoro delle persone con disabilità, ritenendo che nel nostro Paese non esista ancora «parità di trattamento»: «La Repubblica italiana - conclude la sentenza -, non avendo imposto a tutti i datori di lavoro di  prevedere, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, soluzioni ragionevoli applicabili a tutti i disabili, è venuta meno al suo obbligo di recepire correttamente e completamente l'articolo 5 della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro».

Nonostante tutto, la legislazione italiana include alcuni provvedimenti legislativi in materia di assistenza, integrazione sociale e diritti delle persone disabili, nonché di diritto al lavoro. Il punto, però, è che «le garanzie e le agevolazioni previste a favore dei disabili in materia di occupazione dalla normativa italiana di trasposizione della direttiva non riguardano tutti i disabili, tutti i datori di lavoro e tutti i diversi aspetti del rapporto di lavoro. Peraltro, l’attuazione dei provvedimenti legislativi italiani sarebbe affidata all’adozione di misure ulteriori da parte delle autorità locali o alla conclusione di apposite convenzioni tra queste e i datori di lavoro e pertanto non conferirebbe ai disabili diritti azionabili direttamente in giudizio».

I dati sull'inclusione parlano chiaro: nel nostro Paese – fa notare la Fish, Federazione Italiana per il superamento dell'handicap – solo il 16% (circa 300 mila) delle persone con disabilità fra i 15 e i 74 anni lavora, contro il 49,9% del totale della popolazione. Il motivo è semplice: le norme italiane sono a maglie larghe, non prevedono sanzioni pesanti, possono essere aggirate, e addirittura completamente ignorate in presenza di stato di crisi.
Per garantire ai disabili la parità di trattamento, la direttiva impone in particolare al datore di lavoro di adottare i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire a tali persone di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti comportino un onere finanziario sproporzionato. Tale onere non è sproporzionato quando è compensato in modo sufficiente da misure statali a favore dei disabili. Con questa sentenza, la Corte dichiara che, se è vero che la nozione di «handicap» non è espressamente definita nella direttiva, essa deve essere intesa alla luce della convenzione dell’ONU, nel senso che si riferisce ad una limitazione risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, le quali, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori.

ECCO LA SENTENZA.



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